Lo chef Federico Valicenti è uno degli osti più celebri e rinomati d’Italia, rappresentante di quella gloriosa tradizione nostrana che è per l’appunto l’osteria. Non a casa lo hanno voluto a Master Chef Italia come giudice ospite della semifinale della terza stagione, dove una dei concorrenti ha dovuto ricreare la sua “trippa risottata”.
Allo stesso tempo, è un reinventore della tradizione, uno (ri)scopritore di gusti, cibi, ricette e cucine antiche riproposte con grande fascino (e ovviamente gusto) al giorno d’oggi nel suo ristorante “Luna Rossa” a Terranova di Pollino, Basilicata. Uno chef per il quale cibo è, in primo luogo, cultura e identità di popolo e di territorio, intrinsecamente legata al luogo. Se per il francese Alain Roger parla di “artialization” del territorio, per Valicenti si potrebbe parlare di “gastronomization”. Si ritiene per questo un “cibosofo”, filosofo del cibo e della sua cultura.
Non a caso sono arrivati i numerosi premi, dalla Guida Michelin al Gambero Rosso, da Slow Food al Touring Club e tanti altri. Come non è un caso la sua attività al di fuori della cucina, in qualità di scrittore e autore di ricettari-saggi e saggi-ricettari (in un connubio inscindibile, perché per cucinare bisogna conoscere e capire il cibo, la sua storia, i suoi luoghi e le sue origini). Nascono così, ad esempio, Gli Atlanti della Tavola che sin dal titolo sottolineano il rapporto tra cibo e territorio.
Mercoledì 21 ottobre, lo chef Valicenti è stato ospite di eccezione al Centro Campania nel secondo appuntamento della rassegna “Cuoco Maestro”. La manifestazione, dal 14 ottobre 2015 al 25 novembre, per sette mercoledì, dalle 21 alle 23, vede protagonisti sette grandi chef che racconteranno la cucina delle regioni italiane e mostreranno tecniche di cucina popolare.
Ospite del primo appuntamento, Chef Rubio, noto per la trasmissione Unti e Bisunti, quindi Federico Valicenti cui seguiranno: Marilù Terrasi, chef del “Pocho” a San Vito lo Capo in Sicilia; Alice Delcourt, chef del ristorante “Erba brusca” di Milano; Salvatore Toscano, chef dell’osteria “Mangiando Mangiando” a Greve in Chianti; I de Gregorio, dello “Lo stuzzichino” a Sant’Agata dei due Golfi in Campania; Giorgione Barchiesi, chef nel suo ristorante “Alla via di mezzo” di Montefalco vicino Perugia.
Per l’occasione, incontriamo lo chef Valicenti e poniamo qualche domanda su cibo e cultura.
Chef Valicenti, lei ha scritto Gli Atlanti della Tavola. Qual è il ruolo che la cucina e la gastronomia riveste nell’identità di un luogo e di un popolo?
Il cibo racconta le identità del territorio. I turisti di oggi sono cambiati, la gente nei luoghi che visita si propone una full immersion negli usi e costumi cercando di sentirsi partecipe, metabolizza le tradizioni, cerca ,attraverso il gusto, la conoscenza della memoria del luogo. Scrivendo Gli Atlanti della Tavola ho voluto creare un’emozione più conoscitiva del territorio attraverso le colture e la cultura che lo impregnano e che esprime attraverso la ricetta.
Si definisce un cibosofo. Cosa intende per cibosofia?
È il racconto dei territori, del loro pensiero attraverso il cibo. Grandi filosofi nella storia dell’uomo hanno usato il cibo e i prodotti della terra per raccontare la vita, per far comprendere quanto siano unite, più di quanto si pensi, la gola e il cervello. Il mondo ha bisogno di una nuova cultura del cibo, ha bisogno della cibosofia. Non solo gli atavici filosofi, ma anche quelli contemporanei hanno compreso che non esiste un futuro letterario con l’omogeneizzazione dei sapori perché attraverso la non cultura che questo mondo si porta dietro, si rischia anche l’omogeneizzazione dei saperi.
Oltre che chef rinomato è anche autore. A differenza di altri, lei non ha mai scritto semplici ricettari, ma veri e propri studi che si concludono con le ricette. Ce ne vuole parlare?
Io sono un sostenitore dell’archeogastronomia, che è espressione dell’evoluzione della specie umana. Raccontare una ricetta attraverso la conoscenza del prodotto, del percorso che ha fatto per arrivare in quel luogo, la sua coltivazione e il suo uso nella cucina diventa quanto mai intrigante. Questo studio permette di entrare in punta di piedi nel mondo più variegato e complesso dell’antropologia attraverso il gusto. È un percorso totalizzante dove la curiosità spinge verso la conoscenza diventando sempre più appagamento culturale e capacità di lavorare la materia prima, mantenendo intatta la sua storia e il suo sapore .
Oltre a questi, è stato anche autore di opere di narrativa, nello specifici di favole e racconti per bambini a tema gastronomico, come l’ultimo C’era una volta Hèraclea – La favola del cibo lucano. Crede che i bambini dovrebbero essere educati al cibo?
I bambini sono il futuro, quindi vanno educati al cibo attraverso la conoscenza delle colture e delle proprie tradizioni. Il ritorno all’orto simbolicamente significa tanto, soprattutto per le nuove generazioni. Senza demonizzare nulla, ma il rapporto con il cibo tra adulti e bambini va rivisto, l’educazione al cibo e alla conoscenza degli alimenti va rafforzata e rivisitata in modo che diventi salutistico e di gusto.
Come definirebbe la sua Basilicata da un punto di vista gastronomico?
La cucina lucana, la nostra cucina, è fatta di mille prodotti e migliaia di sapori e profumi. La cultura del cibo e del mangiare bene, sano e pulito è congenita alla nostra civiltà gastronomica, culla del Mediterraneo. Tutte le merci, tutte le spezie, tutti i profumi sono passati dalla nostra regione, ad ogni mercato di sapori abbiamo rubato le essenze e le abbiamo fatte nostre, coltivate e trasferite in cucina, da millenni. Sapienti mani di abili cuochi e cuoche hanno saputo assemblare i prodotti, custoditi in piccoli segreti e tramandati da madre in figlia, da nonne a nipoti, per tradizione e convinzione. Ricette non scritte hanno incuriosito la mente ed il palato, sviluppato l’immaginazione e la fantasia, moltiplicato i colori e le geometrie dei piatti e della loro preparazione. La tradizione orale ha permesso di arricchire la ricetta ogni volta con qualcosa di nuovo così che ad ogni racconto, ad ogni preparazione si aggiunge o si toglie un ingrediente, un’essenza, rendendo il piatto originale, unico, irripetibile.
Cosa ne pensa del rapporto dei napoletano con il cibo e la sua ricca tradizione?
La teatralità del gusto e del cibo di cui Napoli è impregnata e che attraverso questo grande mezzo comunicativo ha saputo far amare e fatto conoscere la sua cultura gastronomica nei secoli, dall’evoluzione della pizza fritta alla margherita, dal colì dei Monsù al ragù di Eduardo de Filippo, dalla fame atavica di Totò al caciocavallo appeso del Cardinale Ruffo, dalla manteca riempita di burro alla mozzarella di bufala, dall’evoluzione del popolo napoletano da mangiafoglia a mangiamaccheroni. Penso che nessun altro popolo possa raccontare la sua storia così intrisa di cibo e di prodotti inossidabili nel tempo.
L’Italia è ancora il Paese della buona tavola?
Penso che non scomparirà mai, è nel nostro DNA la cultura del buon cibo, della sua preparazione e dell’estetica. Questi tre doni messi assieme diventano bellezza, e la bellezza non sfiorisce mai, nemmeno quando si è vetusti!
Ecco la Basilicata che mi piace: vestita di azzurro come il cielo, con corpo di rotondità gaudente , su base di colori del sole infuocato e di luna al tramonto, occhi spiritati di perenne passione che scrutano con curiosità mai sazia tutto quello che riescono ad afferrare , incavati in un viso senza sofferenza intellettuale ; diradati capelli a scoprire la testa che raccoglie energie naturali di un mondo arcaico ma proiettato a guidarne il futuro.
Solo qualche giorno fa a “Letti di sera” (Cibò Potenza) ha nuovamente entusiasmato, non solo prendendo per la gola. Del resto, solo un “cibosofo”, è in grado di giocare con le parole sparse sul tavolo e poi invitare ad assaggiarle, a gustarle o magari a buttarle vie e cancellarle dal palato. Lo chef Federico Valicenti, fresco dell’ultima “chiocciola” di Slow Food”, dell’ingresso nella Guida ristoranti Espresso 2016 (in Basilicata solo cinque locali) che si aggiungono ai tanti riconoscimenti per la sua “Luna Rossa” di Terranova del Pollino, per il Centro Studi Turistici Thalia, della serie (quasi nessuno) è profeta in patria, è lo chef 2016 ambasciatore della Basilicata.
Del resto, il suo pensiero (“La ricetta è tradizione, la preparazione è tipica, il cibo è topico, la cucina lucana è la tavola di tutti”) sintetizza meglio di un fiume di parole la sua arte e la sua passione per il cibo e la sua cultura esportati in tutto il mondo. E se Francis Coppola dall’Expo2015 ha conquistato il titolo di ambasciatore della Basilicata da vedere, Federico Valicenti è l’ambasciatore della Basilicata da gustare attivando tutti i cinque sensi e soprattutto lasciandosi guidare dai suoi occhi magnetici e dal suo sorriso che esprime la sacra ospitalità lucana. A proposito del regista bernaldese-americano lo chef di Terranova ne parla con il suo linguaggio poetico: “Ecco la Basilicata che mi piace: vestita di azzurro come il cielo, con corpo di rotondita’ gaudente , su base di colori del sole infuocato e di luna al tramonto, occhi spiritati di perenne passione che scrutano con curiosita’ mai sazia tutto quello che riescono ad afferrare , incavati in un viso senza sofferenza intellettuale ; diradati capelli a scoprire la testa che raccoglie energie naturali di un mondo arcaico ma proiettato a guidarne il futuro.
Ecco questa e” la Basilicata che mi fa vedere Coppola”. Dunque il cibo come un film racconta le identità del territorio. I turisti di oggi – dice Valicenti – sono cambiati, la gente nei luoghi che visita si propone una full immersion negli usi e costumi cercando di sentirsi partecipe, metabolizza le tradizioni, cerca ,attraverso il gusto, la conoscenza della memoria del luogo. Scrivendo Gli Atlanti della Tavola ho voluto creare un’emozione più conoscitiva del territorio attraverso le colture e la cultura che lo impregnano e che esprime attraverso la ricetta. Poi spiega la sua cibosofia: È il racconto dei territori, del loro pensiero attraverso il cibo. Grandi filosofi nella storia dell’uomo hanno usato il cibo e i prodotti della terra per raccontare la vita, per far comprendere quanto siano unite, più di quanto si pensi, la gola e il cervello. Il mondo ha bisogno di una nuova cultura del cibo, ha bisogno della cibosofia.
Non solo gli atavici filosofi, ma anche quelli contemporanei hanno compreso che non esiste un futuro letterario con l’omogeneizzazione dei sapori perché attraverso la non cultura che questo mondo si porta dietro, si rischia anche l’omogeneizzazione dei saperi. Ma – sottolineano Piero Scutari e Arturo Giglio, presidente e segretario del Centro Studi Thalia -la “lezione” di Valicenti è più semplice di quanto si pensi: per mangiare bene non occorrono trucchi nè bisogna seguire una moda. Si parte dal territorio, dalla nostra cultura da quel che offre la nostra terra. Tipico vuol dire sano e di qualità: questo vale soprattutto per la Basilicata che custodisce tra le pieghe del paesaggio rurale un patrimonio di sapori e tradizioni unici e inimitabili, ma soprattutto inscindibili dal territorio.
Il nostro ‘giacimento’ di specialità alimentari di qualità: appartengono alla Basilicata ben 77 prodotti agroalimentari DOP e IGP a riprova che il Made in Italy agroalimentare e con esso il made in Basilicata hanno un grande potenziale Si tratta – continuano i dirigenti del Thalia – di alcune decine di prodotti agroalimentari tradizionali, che per volumi ed estensione territoriale non rientrano nei parametri delle Dop e delle Igp, ma che sono autentiche “calamite” per il turismo enogastronomico, un comparto che vale 5 miliardi l’anno. Eppure, di queste specialità della terra una su quattro è in via di estinzione, visto che attualmente è coltivata da non più di 10 aziende agricole che ne custodiscono la memoria.
Chef, cibosofo e pensatore è l’anima creativa del ristorante Luna Rossa, aggrappato alle falde delle alture presso Terranova di Pollino, fra fiumi di pietra e posate di legno più alte di un uomo. Per una sofisticata cultura contadina.
Cosa si viene a scoprire oggi in Basilicata?
La Basilicata oggi offre un concetto di vita nuovo, particolare, che la gente sta imparando a conoscere: il concetto di “slow life”. Qui i ritmi sono lenti, è una regione arcaica, antica, fascinosa. E le persone stanno imparando ad apprezzare questo modo, queste caratteristiche slow. Se vuoi visitare i paesi di questa regione devi uscire dai canoni tradizionali del turismo non solo cosiddetto “di massa”, ma del turismo che definirei “di non curiosità”. Chi viene qui da noi è curioso, anche perché è la curiosità che ti spinge ad arrivare fin qui a Terranova, ad esempio, ma ovunque sul territorio.
Dove hai colto il legame fra Terranova di Pollino e la carriera di chef?
Io sono nato a Terranova, da ragazzo è proprio la curiosità che mi ha spinto a muovermi, come tutti i lucani che vogliono uscire da questi ameni paesini e scoprire cosa c’è fuori. Erano gli anni ’60-’70, anni di grande fioritura e fermento: poi è chiaro che dipende molto dalla propria forma mentis e dalla cultura. Il primo libricino che ho letto non è stato Cappuccetto Rosso, ma Il Gabbiano Jonathan Livingstone, e mi ha rovinato la vita! Mi ha proiettato nel mondo, mi ha spinto a girare l’Italia prima e l’Europa poi, in autostop (ero un po’ un freak) e mi divertiva girovagare in questo modo. Poi sono ricapitato qui per caso, o meglio, perché c’è stato il terremoto negli anni ’80, altrimenti io qui non sarei mai voluto tornare. Ho abitato a Roma e poi a Vimodrone, un paesino vicino Milano, avevo deciso di restare lì nell’hinterland milanese, ma ci sono rimasto solo tre mesi – e ora devo dire per fortuna. Per via del terremoto sono tornato, cominciando a lavorare a Laviano, dove ho avuto questa folgorazione per la cucina, ben lontano dalla via di Damasco. Io non sapevo cucinare: non sapevo friggere un uovo! Mi sono inventato questo lavoro e dopo 35 anni ancora non ho capito bene cosa e come ho fatto, perché non ha nessun senso aprire un ristorante nel 1981 a Terranova di Pollino. Sono quei percorsi nella vita che uno decide di fare, ma sai che è un azzardo. Ho imparato qui. Da solo, andando in giro a raccogliere testimonianze dai contadini, dai pastori, dagli agricoltori e anche da alcuni clienti, ma non c’è un programma razionale alla base di tutto questo. Sono andato alla ricerca dei piatti, delle tradizioni culinarie e ho cercato di trasformarle senza tradirle: come se le ripulissi, perché certo non si può più cucinare come si faceva cento o trecento anni fa, è cambiato tutto. Ma se trovo un piatto particolare lo riformulo, cerco di sgrassarlo, di renderlo più affine al palato di oggi. Ad esempio, le costolette di maiale con le fave: la cosa che più mi ha incuriosito non è tanto il piatto in sé, quanto piuttosto il fatto che la contadina che mi ha insegnato questo piatto mi ha detto che bisognava cuocere insieme fave e carne e che, quando la carne si stacca dall’osso in cottura, allora anche le fave sono pronte – cosa che detta così mi faceva ridere… questi metodi di cottura, diciamo così, un po’ particolari… ma io le ho fatte ed è proprio così. Allora ho preso questa ricetta, e questo “segreto di cottura”, e l’ho pulito, se così si può dire, per renderlo meno pesante: faccio un filetto di maiale cotto su sale di miniera, che è un sale particolare che vado a prendere a Lungro, nella piana di Sibari, dove c’è questa salina ormai chiusa, ed è più ricco di potassio e sodio e a mio parere non asciuga le carni. Ma questa è tutta una mia idea, non è che ci sono dei trattati di cucina su cui ho studiato questa cosa: non vengo dalla scuola di cucina che mi ha preparato in un certo modo, con un certo tipo di tecnica. Ad esempio, io non faccio i soffritti quando faccio i sughi, sedano e cipolla non li uso, vado direttamente con il pomodoro e l’olio, perché questo non appesantisce, non copre il gusto del pomodoro vero, che a me piace sentire in bocca.
Cosa distingue e affascina della cucina lucana?
La cucina lucana è una cucina strana, tutti pensano che sia una cucina grezza, pesante: ma non è così. Ci sono molte verdure tra gli ingredienti, ma i metodi di cottura soprattutto sono affascinanti, e tutto tranne che grassi o pesanti. Basti pensare al fatto che un tempo la carne di maiale si cucinava facendola stare per due o tre ore nell’acqua, perché questo faceva affiorare il grasso e andar via i residui di sangue, e poi veniva messa in padella e portata a bollore, schiumata, asciugata e solo dopo venivano messe le spezie. Stessa cosa per il capretto, per l’agnello, che venivano messi a cuocere prima in acqua, poi soffritti e insaporiti nelle sartane, cosa che alleggeriva tantissimo il piatto esaltando il gusto delle carni.
Cosa pensa dei programmi di cucina?
Partiamo dal principio che avere programmi di cucina ha avvicinato moltissimo le persone e cambiato il concetto stesso che la gente, soprattuto in Italia, aveva dei cuochi. Prendiamo il cuoco francese, che veniva visto come altezzoso (ricordando sempre che i francesi ci hanno insegnato il concetto delle brigate in cucina, è a loro che dobbiamo il concetto di ordine e gerarchia in cucina), mentre il cuoco italiano era quello in canottiera, magari macchiata di sugo, con la sigaretta in bocca, ubriacone. Questo veicolo mediatico ha portato il concetto di cibo sano, buono, cucinato con accortezza, ed ha cambiato anche l’immagine del cuoco nell’immaginario comune. Poi come in tutte le cose ci sono i lati positivi e negativi: abbiamo visto in televisione persone che in realtà non sanno niente di cucina e professionisti che sanno quello che fanno, che prendono il cibo e lo trattano ad arte. La televisione è importante, e bisogna saperne fare un buon uso: io non mi sento un teleidiota, e solitamente non guardo programmi di cucina. Mi interesso ad altro: sono più legato ai territori, all’ambiente, ad andare in giro a raccogliere esperienze, a parlare, anche il cliente stesso mi insegna a cucinare molto spesso. E questo perché spesso parlando col cliente ricevo un racconto di esperienze.
Molti suoi colleghi rifiutano la stella Michelin, altri si omologano, lei cosa ne pensa?
Io potrei fare il “salto” e diventare chef stellato Michelin, ma la cosa non mi interessa, perché dovrei cambiare radicalmente il mio concetto di cibo. Un ispettore Michelin me l’ha detto: dopo aver fatto la sua recensione, aver scritto le sue impressioni, mi ha consigliato di cambiare un po’ le cose nel locale, mettere il sommelier, perché avrei le carte in regola per prendere la stella Michelin, ma a me non interessa, e gliel’ho detto chiaramente. E lui è rimasto un attimo scioccato. Ma il motivo è semplice: io sarei costretto a rivoluzionare totalmente il concetto di cibo e di accoglienza che negli anni ho acquisito e coltivato, per me questa è un’osteria dove la gente viene, deve sentirsi a suo agio, deve avere la possibilità di discutere con me di un piatto, di un’idea, di parlare e raccontare le cose. Ora si chiama story-telling, ma io preferisco quelli che da noi si chiamano i “fattarielli”. Ho sempre avuto un concetto della tavola come luogo della comunicazione, del cibo come storia, tant’è vero che ho scritto una serie di libri in questo senso. All’ultimo che uscirà, e che secondo me sarà bellissimo, sono molto legato: si chiamerà Dal Paradiso alla Tavola, e racconterà Gesù dal punto di vista gastronomico. Io sono agnostico, ma leggendo Gesù da questo punto di vista sto scoprendo che era un grande chef. E questo perché a mio avviso lui amava moltissimo lavorare il cibo, a partire dalla pasta. Lui ha sempre visto la madre fare la pasta, e secondo me già da piccolo ha capito l’importanza, quasi la magia, del lievito, e l’ha poi trasformato in comunicazione. Tant’è vero che lui parla in continuazione di cibo, nella sua grandezza di comunicatore, lui ha creato un mondo simbolico attraverso il cibo col quale parlava al ricco e al povero, al dotto e all’imbecille. Pani, pesci, lievito, vino. Mi sono innamorato di questa figura perché qualche anno fa ho letto che i farisei, per screditarlo, dicevano che era un ubriacone; mentre noi siamo abituati alla figura di un mistico, lontano da questi vizi così umani; quindi sono andato a leggere il Vangelo, a modo mio, però, dal punto di vista gastronomico, soprattutto, e me ne sono innamorato: è una figura straordinaria. Quando fece il miracolo di far rinascere la figlia di Giairo, appena compiuto il miracolo, come prima cosa, ordinò di darle da mangiare: ancora la centralità del cibo, la prima cosa è mangiare. E un altro passaggio fondamentale nella sua crescita ha sullo sfondo ancora la tavola: il suo primo miracolo, la trasformazione dell’acqua in vino, gli viene ordinato dalla Madonna. E lui inizialmente risponde alla richiesta rivolgendosi alla Madre: poi le si rivolgerà come Donna. Ha tagliato il cordone ombelicale, è diventato un uomo, e il vino in quel caso è appunto la metafora di questa trasformazione, di questa crescita, dal ragazzo all’uomo. E poi le sue tre apparizioni: al di là del simbolo dell’uovo, della misticità, c’è una cosmicità del cibo, un racconto di morte e rinascita. L’immagine più bella, che contiene a mio avviso il messaggio più importante che ci ha lasciato questa grande figura, che è ancora attuale e che ho ritrovato poi in Rocco Scotellaro, è quando – all’apparizione sul lago di Tiberiade, quando i suoi non avevano pescato niente – Simone vede sulla spiaggia un pesce che cuoce sulla brace, e in quel pesce che cuoceva vede la traccia di Gesù: e allora non ho potuto fare a meno di chiedermi che intingolo Gesù usasse, che odore caratteristico che rimandava a lui c’era su quella spiaggia? Quindi il messaggio che ci ha lasciato, la raccomandazione, è quella di non perdere la memoria del profumo, perché è attraverso un profumo che, chi non c’è più tra i vivi, potrà essere sentito come presenza; è attraverso il profumo che ci riconosceremo tutti. E Rocco Scotellaro, nel 1951, scrisse una lettere bellissima ad un suo amico che era emigrato in America: lo invitava a ritornare, non attraverso il cosiddetto dolore lucano… quel fare leva su una malinconia, la coercizione del dolore tutta lucana che ci tiene legati a questa terra come a una madre o un padre… ma attraverso la metafora del profumo e gli disse: “Torna, è ora che assaggi molliche di pane, l’odore dei forni come te lo manderemo?” [America Scordarola, Rocco Scotellaro, ndr]. Usava il profumo, l’odore, come strumento della memoria. Come la madeleine di Proust. E questo mi fa pensare anche al fatto che la globalizzazione, l’omogenizzazione dei gusti, sta distruggendo la memoria del profumo, dell’olfatto: tutto sta diventando uguale, ed è lì che dobbiamo combattere. Dobbiamo usare le spezie, i profumi della terra. La cucina è soprattutto memoria.
E chi non la condivide una certa memoria?
Tutti si possono sentire a casa alla mia tavola: vegetariani, celiaci. La mia cucina è per tutti, perché le storie sono per tutti. I nomi dei miei piatti fanno parte di questa narrazione, e chiaramente c’è una scelta che deve essere accattivante, di marketing si potrebbe dire, ma sempre legata al territorio, alle parole del territorio: ci sono i Capunti delle Donne Monache, per esempio. È una ricetta che ho trovato in un convento di Gravina in Puglia, ed è un piatto datato 1675. Inizialmente l’ho chiamato Foglie d’ulivo del Buon Pastore, perché mi rimandava a Gesù, alla Pasqua con la ricotta e la cannella, e poi studiando a fondo ho cambiato. Anche la pasta: non più foglie d’ulivo, ma caratelli, perché ho scoperto che le donne monache facevano i caratelli o le orecchiette con questa salsa di ricotta, cannella, bucce di limone e zucchero. È una ricetta antichissima che si fa anche ancora in Basilicata, ma la salsa è in questo caso il ripieno di un raviolo. In questo periodo sto facendo un piatto di grani antichi con basilico, menta, sedano e finocchietto che mi danno l’impressione del Parco: il mio parco, il Pollino. Sono le erbe, le spezie che preferisco usare. Anche i funghi, che dal bosco vengono, mi piace sentirli naturali, col sapore del bosco, senza coprirli con intingoli o soffritti, evito di usare aglio, prezzemolo o pepe: funghi saltati in padella con olio, e poi del cacioricotta sopra, ad esaltarli per contrasto. Le persone così le riporti in campagna, a sentire il profumo del latte, dell’erba.
Tutta questa “ricerca” non passa da quello che si vede in televisione: uno chef deve studiare?
Io ho scritto dodici libri e ora ho chiesto al ragazzo che si occupa di curare il mio sito web di mettere on line i testi, per poterli scaricare direttamente: non mi interessa venderli, mi interessa che passi una narrazione del cibo. E mi piace trovare nei libri le suggestioni del cibo: da Manuel Vàzquez Montalbàn al primo Montalbano con i loro momenti a tavola, che sono spesso centrali all’interno della narrazione. Bisogna uscire fuori dal concetto di cucina casereccia, bisogna passare dalla cucina tipica a quella topica: è il territorio che parla in cucina. Ho fatto una start-up a Roma e la cosa più bella di quell’esperienza è che mi ha consentito di andare in giro per tutto il Lazio a cercare i prodotti di quella Regione: trovare il prosciutto di Bassiano, il conciato di San Vittore, che è un formaggio straordinario, la farina di un mulino che macina a pietra vicino Rieti oppure il salame di Monte San Biagio dove ancora si usa il coriandolo, mi ha consentito non solo di approfondire questi aspetti di quel territorio, ma di ritrovare anche dei punti in comune con la cucina lucana. Il coriandolo, per esempio, mi riporta in Basilicata, dove ci sono dei paesi che in cucina lo usano molto, perché è una spezia di origine longobarda. Questo crea una commistione topica, appunto: le regioni parlano tra loro attraverso questi ingredienti che segnano i passaggi delle popolazioni nella storia attraverso l’Italia. Il Lazio ha sempre parlato col mondo, perché c’è Roma. E oggi abbiamo una nuova possibilità di rinforzare e ampliare questa “conversazione”: gli immigrati non vengono a prendere da noi qualcosa, ma portano la loro esperienza. Se la Basilicata non fosse stata un crocevia di culture, un luogo dove storicamente sono passati tutti nelle migrazioni da Oriente a Occidente e viceversa, hanno lasciato tracce incredibili, noi non avremmo il peperone crusco: fu portato dagli arabi, è un peperone che ha una struttura molecolare unica, diversa da tutti gli altri peperoni, si disidrata completamente, e questo fa si che il picciolo non si stacchi dal frutto, a differenza di un astigiano o di un cornetto napoletano. Disidratandosi diviene gommoso, non commestibile, allora il lucano lo frigge in olio caldo e diventa come le chips, croccante. E non è da tutti saperlo cucinare. Ma questa ricetta non è araba, il crusco non è una ricetta antica, e questo perché fino ai primi del ‘900 l’olio non si usava per friggere, perché era un prodotto prezioso, quindi si usava la sugna: questa ha un punto di fumo molto basso e non frigge. Se si cucinano le patate nella sugna non diventano croccanti, infatti. Ma non si può non friggere questo peperone, quindi mi chiedevo come potesse essere nata questa tradizione: e mi sono messo dietro alle transumanze. Ho scoperto che durante queste migrazioni stagionali i pastori si portavano dietro i peperoni secchi, e li cuocevano prendendoli per il picciolo e li facevano roteare sulla fiamma: in questo modo il peperone si inturgidisce e diventa una spezia e poi frantumato con le mani serve per condire carni, salame. Io ho provato a cucinarlo nel forno, ma non è la stessa cosa di quello fritto: che è più buono… fa male ma fa bene! Mentre la tradizione dolciaria è scarsa, ma perché sono paesi di montagna, dove non c’è grande tradizione in questo senso. L’influenza forte poi l’abbiamo avuta dal Regno delle due Sicilie, quindi più che altro dolci con le glasse: l’unico dolce tipico della Basilicata potrebbe essere il cosiddetto Cuscinetto di Gesù Bambino, che si fa a Natale con un passato di ceci, cannella e cioccolato in un raviolo. La cannella e i fiori di garofano sono presenti in Basilicata almeno dal 1500. Il finocchio è un altro protagonista della tavola qui da noi e questa abitudine è riconducibile all’influenza della scuola medica salernitana, dove la tradizione erboristica era fortissima. E il finocchio è un forte veicolatore di massa intestinale, e ci sono almeno venti tipi di ombrellifere che si usano ognuna per un diverso tipo di preparazione. Dall’aneto al coriandolo, al finocchio adatto per la salsiccia piuttosto che per altre carni o per i biscotti. Il cumino viene dalla stessa famiglia, e sono tutte erbe arrivate con gli Arabi. Noi siamo arabi, siamo spagnoli. Siamo bizantini anche, e la traccia del loro passaggio sta nella grande tradizione del mosto cotto: ho trovato ricette come gli spaghetti sottili cotti nel mosto o il baccalà arraganato e poi condito col mosto, i peperoni ripieni di mollica di pane, alici e mosto cotto. E per spezzare il sapore troppo dolce ci si mettevano pezzettini di mele cotogne. Poi è arrivato il pomodoro nell’ottocento, che ha un po’ livellato tutto con la sua grande versatilità.
Quale dovrebbe essere il modello di sviluppo di questa regione e come s’impegna per questo?
Questi paesi montani potrebbero fare del loro isolamento, della loro scarsa raggiungibilità, un punto di forza, trasformandosi nel regno dello slow life: non c’è bisogno di inventarsi niente, basterebbe incentivare certe forme tradizionali di vita. E poi, una manovra di defiscalizzazione sarebbe il caso di pensarla: se li si vogliono ripopolare questa misura vedrebbe come risultato un fiorire di piccoli artigiani, di professioni antiche che tornano nei borghi e impiegano i ragazzi senza perderli, facendoli fuggire o pensando che l’alternativa sia solo la fabbrica. Sono molto attivo nel sociale: per esempio ora, con Funky Tomato, stiamo lavorando per combattere la piaga del caporalato: questi ragazzi vanno tolti dalle mani di questi schiavisti delinquenti, creando delle alternative produttive. E questo passa anche per una semplificazione della burocrazia, una incentivazione dell’impresa giovanile passa anche per la semplificazione.
Per lei c’è una cattiva volontà politica?
Non è un fatto di cattiva volontà politica: è un problema di incapacità. Ci sono poi anche dei falsi miti che vanno sfatati. Io sto seguendo molto da vicino la questione Val d’Agri, e la cosa che mi fa più rabbia è che parte delle colpe è proprio di chi vive lì: si sono fatti accalappiare da un’azienda che è poi è lo Stato stesso. Non si sono messi in discussione: perché non hanno voluto combattere per insistere sul turismo, sull’agricoltura, sulla cultura? Trent’anni fa, quando sono arrivati con queste chimere di guadagno dal petrolio, hanno avuto vita facile, perché la gente era povera: è questa povertà, questa fame, che li ha fatti arrivare. Perché poi, quando l’Arpab pubblicava le sue analisi, non c’è stata una contrapposizione forte, “noi no!”, non c’è stata né contrapposizione né mediazione: si sono resi sudditi. E chi si è contrapposto l’ha fatto in modo non organizzato e senza comprendere che l’arma della mediazione è fondamentale nella politica, e questa è una questione politica. Se ti contrapponi solo con un secco rifiuto non otterrai alcun ascolto.
Chi sono i “lucani”?
Siamo un popolo tosto, resistente, ma il nostro punto di forza vero è l’accoglienza, che è una cosa difficile da spiegare se non la si sperimenta direttamente. E l’iniziativa dei giovani è impressionante: ho visto start-up incredibili, di cui non sapevo l’esistenza, che mi hanno impressionato per la vivacità, l’intelligenza dei progetti proposti. Questa cosa deve far riflettere sul fatto che questa regione non è affatto perduta: il fatto è che tutti questi singoli, o questi gruppi di persone, dovrebbero parlare più tra di loro, fare rete, non essere isolati. Questo consentirebbe di lavorare tutti insieme, portando una nuova idea del territorio e delle sue prospettive, uscendo da una visione localistica delle iniziative. Se conosci di più sei sempre libero: non è una questione solo di economia, ma di cultura. Se non studi oggi, domani sarai schiavo. Negli ani ‘50 e ‘60 il sud è stato saccheggiato, e ora si vedono i risultati. Se si sveglia il Sud, so cazzi! E io questa cosa qui l’ho sentita dire la prima volta venti anni fa a Ca’ del Bosco a Vinitaly, da produttori vinicoli del settentrione. Guarda la Puglia, che dopo essere crollata miseramente, ora ha capito che deve investire sui prodotti e le economie locali: i vini, il turismo culturale, il cibo, l’olio. La Campania idem, ha capito che riprendendosi la propria cultura sarebbe rinata. In Basilicata, che è anche scarsamente popolata, questa visione è ancora molto lontana. E c’è un controllo sociale, politico, capillare: si sa sempre quello che succede, il controllo delle iniziative è stringente. “Divide et impera” è stato un atteggiamento vincente qui: approfittare delle debolezze strutturali, per così dire, ha fatto sì che i vari gruppi non solo non parlassero tra loro, ma spesso finissero uno contro l’altro. E questa è la vittoria di quel controllo sociale di cui parlavamo prima: di quel sospeso che è drammatico.
Cambia il mondo e la cucina ne diventa l’amplificatore.
Non si vuole “mangiare assai” ma di sicuro mangiare bene. Il mondo del cibo si rinnova in continuazione, si riempie di culture e di profumi provenienti da ogni parte del mondo. Quando l’uomo si mette in cammino molto spesso porta più che prendere. Porta con se i profumi, le spezie, gli odori della sua terra e offre agli altri il suo percorso fatto di nutrizione del cibo e di narrazioni di se stesso, della propria tavola come accoglienza, convivialità. Ed in cucina, nell’assurdo parallelo, ci si ritrova come nel tardo medioevo, quando nuove culture affiorarono in Europa e i cuochi dovettero inventarsi nuovi piatti e nuove preparazioni per soddisfare i popoli in arrivo. Oggi si ricerca più la qualità che la quantità. Ma soprattutto si ricerca il gusto, la memoria degli odori e quindi si va incontro a riduzioni di pietanze ma che evochino emozioni.
E’ sbagliato dire che questo ci porta verso una cucina minimalista. Cosi come è sbagliato dire che stiamo andando verso una cucina essenziale. Probabile che la nuova tendenza sia la cucina esperenziale, emozionale. Non più tanta roba da mangiare ma roba da odorare, storie da narrare, territorio da ascoltare. La cucina riprende il suo ruolo: stimolare il gusto, nutrire la memoria, soddisfare l’olfatto. Non che prima gli ingredienti erano diversi, ma diversi erano le preparazioni e le presentazioni. La cucina era sinonimo di abbondanza quindi di benessere. Prima si idratavano gli alimenti, si gonfiavano, si sifonava, si caramellava, si spumava, si cercava il “ coup de thèatre” con composizioni pompose, teatrali, pieni di colori e di sapori non identificabili, una cucina per stupire.
Oggi si va alla ricerca di una cucina pulita, giusta. Personalmente rifuggo dal concetto di cucina povera, lo ritengo un falso ideologico per un semplice motivo, i poveri non mangiano. La cucina è una sola, quella buona! Oggi si disidrata, si cerca l’essenza, il cuore del sapore, del profumo per stimolare il quinto senso, l’umami quella parte del gusto “saporito” dei recettori sul palato che portano le informazioni al cervello, che si si unisce agli altri quattro gusti, dolce, salato, amaro, acido. L’umami è quel gusto che riconosciamo dopo essere stati bambini, è quella emozione che solo una cucina impregnata di salsa di pomodoro, alici, parmigiano, funghi, vino può donare. In nostro umami è la terra arcaica, fatta di racconti, di memoria antica, proteina di cibo che noi definiamo sapidi. Quale cucina migliore se non quella della nostra Lucania, dove il cibo ancora insaporisce la vita, lega a sè le storie, le leggende, le tradizioni. La nuova mission è quella di raccontare il territorio attraverso il cibo. Conio cibosofia. Il cibosofo racconta l’utopia della terra promessa, dove scorre sempre latte e miele. Racconta l’utopia della nutrizione che ripristina l’unione con il seno materno, con il cibo tradizionale, topico, fatto di sapori genuini. Anche quando continuerà ad essere spinta verso ascetici propositi, la mente del cibosofo continuerà a nutrirsi, anche solo in modo figurato. Come la metafora del corpo fatto cibo, dove il pensiero lievita come pane nella madia, la parola scivola e si condensa come l’albume racchiuso nell’uovo cosmico, simbolo della Madre Terra solcata da fiumi di vino che portano alla felicità.
Dopo l’esperienza positiva del 13 novembre 2006 dove la Rienzi Wine, LLC con la collaborazione dello chef Federico Valicenti di Terranova di Pollino(PZ) , ha presentato i primi pezzi forti del proprio assortimento di vini, nella sala Hilton del Waldorf Astoria, ha deciso di estendere l’esperienza ad altri ristoranti di New York e rafforzare cosi l’immagine lucana negli Stati Uniti.
La Rienzi International, sinonimo di prodotti alimentari di qualità, importati dall’Italia, che includono oltre venti categorie che variano dai pomodori, olio, olive, minestre, aceto, formaggi e pasta, principalmente dall’Italia del sud, organizza in collaborazione con lo chef Federico Valicenti in prestigiosi ristoranti italo-americani.
Durante la presentazione della serata, il noto chef Federico Valicenti da Terranova di Pollino(PZ), presenterà dei menu di alta cucina lucana accompagnata da vini Aglianico a marchio Rienzi
Una selezione completa dei vini è già disponibile nei negozi di vino e ristoranti nella Tri-State area a complemento della ricca linea di prodotti italiani di Rienzi già venduti presso le catene di supermercati Food Emporium e A & P.
In armonia con l’attenzione dei Rienzi ai particolari, lo stemma della famiglia, risalente al 1300 circa e provenente dalla regione della Basilicata, è stato ricreato ed è usato su tutte le etichette per riaffermare i forti legami fra l’importatore e la sua terra.
I colori e la struttura dello stemma mostrano l’attenzione alla tradizione, la riscoperta di una centenaria arte vinicola e l’impegno ad offrire un prodotto nuovo nel mercato.
Settimana del Gusto Lucano
8 al 23 giugno 2007
con lo chef Federico Valicenti
New York City (U.S.A.)
PROGRAMMA
martedi –19/06 2007-Brooklin- ristorante Marco Polo –
mercoledì 20/07/2007 ristorante Pinocchio –
giovedì 21 /06/2007- Manhattan- lezione magistrale di “Scuola di cucina lucana” presso la International Culinary School a Manhattan con Cesare Casella .
venerdi 22/06/2007- Brooklin cena di gala ristorante Marco Polo
Menu cena di Gala
antipasto :
Tortino di alici “arraganate” e peperoni “cruschi “
primi piatti :
Maccheroncini del Mar Ionio
( polipetti freschi-peperoncini- pomodorini- olio extravergine)
Cavatelli della montagna lucana
(gherigli di noci-tartufo -olio extravergine)
secondo piatto
Agnello alle due cotture
( patate-mollica di pane-uova-pecorino-origano-olioextravergine )
dessert
Crema al ridotto di aglianico
It was early evening in Matera, a city nestled in the southern Italian region of Basilicata, where graceful swallows adorned the skies with their melodious calls. The peaceful ambiance was occasionally punctuated by the clanking of bells hanging from cows quenching their thirst from a meandering stream deep within a majestic canyon.
On the opposite side of the canyon lay old Matera, a district so ancient that it once stood in for Judea in Mel Gibson’s renowned film, “The Passion of the Christ.” Known as the Sassi, or the City of Stone, this area showcased a mesmerizing labyrinth of caves, churches, and narrow Roman-era staircases, all nestled within stone facades sculpted from the golden-hued tufa of the massive slope. Our family had just checked into a newly established hotel, Sextantio Albergo Diffuso Le Grotte Della Civita, and it was there that we encountered an elderly couple climbing the hotel’s time-worn stone stairs.
Intrigued by their purpose, we followed the couple to Suite 10, where they fondly reminisced about their past. The man, Francesco Di Cecce, revealed that he was born in this very cave in 1939, amidst humble living conditions shared with his seven siblings. The once meager dwelling had now been transformed into a magical retreat reminiscent of Plato’s Cave, bathed in a warm golden glow from carefully positioned artificial lights and small windows. The minimalistic yet enchanting decor featured an artfully worn wooden desk, a large bed adorned with a delicate crocheted cover, and arched ceilings, all set on a floor of packed earth and weathered stone tiles.
Matera’s history has not always been as romantic and inviting as it appears today. In 1945, Carlo Levi’s compelling account of Basilicata’s extreme poverty, “Christ Stopped at Eboli,” brought attention and shame to this often-neglected region sandwiched between Puglia and Calabria. Consequently, around a decade later, Mr. Di Cecce and approximately 15,000 other residents of the sassi were relocated to new low-income housing, leaving the ancient grotto homes abandoned and forgotten.
Over the years, efforts to preserve the historically significant sassi led to the declaration of Matera as a UNESCO World Heritage site in 1993. Gradually, the condemned homes were transformed into hotels and restaurants, with some travelers now willingly paying over $400 a night to bask in the enchanting atmosphere of antiquity, even if it meant forgoing modern amenities like flat-screen televisions and Wi-Fi. Adding to the allure, the famed filmmaker and hotelier, Francis Ford Coppola, decided to contribute to the Basilicata buzz by opening the intimate Palazzo Margherita in the picturesque town of Bernalda, not far from Matera.
Basilicata’s charm extends beyond its ancient past and alluring cave hotels. To truly explore the region’s culinary treasures, one must venture to places like Luna Rossa, a restaurant hidden within the remote village of Terranova di Pollino, accessible via a winding drive through the Pollino National Park. Here, the chef and owner, Federico Valicenti, a self-proclaimed culinary anthropologist, serves dishes that draw inspiration from medieval and Renaissance recipes, offering guests a taste of traditional, time-honored flavors.
Another culinary delight awaits at Hotel Torre Fiore, a boutique hotel surrounded by wildflowers and fields of grain, just a short drive from the hilltop city of Pisticci. Originally a masseria, a farmhouse with fortified walls typical of southern Italy, the property was transformed into a dreamlike escape by its current owner, John Giannone. The hotel’s restaurant attracts well-traveled locals and visitors alike, eager to savor the addictive ricotta cheese made by a local artisan, who continues a tradition passed down through six generations.
Basilicata may have been slow to embrace modern ideas, but it compensates with its rich cultural heritage, ancient art, and exquisite cuisine. The region’s allure captivated two contemporary art enthusiasts, Roberto Martino and Angelo Bianco, who returned to their Basilicata roots to run SoutHeritage, a foundation organizing modern art exhibitions in historical spaces throughout the region. Though Basilicata may seem “60 years behind northern Italy” to Mr. Martino, its unique charm and timeless appeal are timeless, enchanting those willing to venture into its depths.
Chef Federico Valicenti is a real people person and when you visit his restaurant Ristorante Tipico Luna Rossa in Terranova di Pollino, the main town in the eastern part of the Pollino National Park in Basilicata, you experience so much more than just a meal. Apart from the stunning views from the restaurant terrace and the fantastic food featuring local produce and homemade pasta such as the pasta bruna made from a mix of chick pea, barley, wheat and oat flours, one of the highlights of eating here is Chef Valicenti himself. During our lunch, which consisted of 9 courses, he came to our table during each course to explain what we were eating, especially the historical or traditional significance of the dish.
Modern day Basilicata was once part of an ancient area of Southern Italy known as Lucania. The restaurant features Lucanian cuisine and also what is commonly referred to as cucina povera or peasant food although Chef Valicenti prefers to refer to it as traditional food and he has fine tuned ancient regional recipes to include on his menu.
We had the tasting menu which consisted of 3 taster portions of anitpasti, 2 of primi piatti (literally ‘first plate’, but difficult to translate exactly as meals in the UK and many other countries are in a completely different format, but which I’m sure we all know refers to what is usually a pasta or rice course), 2 of secondi – often the meat or fish course and 2 of dessert. If you want to try this tasting menu or menù di degustazione go hungry because the ‘taster portions’ are generous.
The first antipasto, “ciambottella nella sportella” was a dish conceived of in the past as an easy way to transport a meal away from home and into the fields to be eaten during a short break in the working day. It is a hollowed out bread roll filled with peppers, tomato, egg and salsiccia (sausage) and capped again with a bread ‘lid’. A convenient meal in an edible container! There are probably many international examples of this type of dish. From the UK the Cornish pasty springs to mind which was exactly the same concept; meat and potatoes inside a pastry case, the pastry being the edible container, which was a meal that Cornish miners used to be sent down the mines with, now widely enjoyed all over the UK.
Indeed, Chef Valicenti will tell you that there is a story behind every dish on his menu, for example the “coscia della sposa” or the “bride’s thigh” is a slow cooked leg of lamb. Legend has it that this dish was served to the bridegroom during the wedding dinner to compensate him for the upholding of a past rule known as “lo ius primae noctis” which stated that the Count or Lord of the area had the right to the first night with his bride! Then there’s “maiale alla rabatana” – pork cooked with orange peel. This was a dish devised by the Lucanians to prevent Arab invaders from eating their oranges as, once cooked with pork, the oranges would no longer be appealing to them.
The Chef is also willing to accommodate special diets whilst maintaining the main flavours of the dish, and was able to produce, for example, a vegetarian version or alternative of all the 9 courses of the tasting menu for me which I requested with a day’s notice. Another nice surprise is the bill at the end of the meal which we found to be more than reasonable at €40 a head for 9 courses, a bottle of wine, coffee and liqueur.
Chef Federico Valicenti – image courtesy of lafamevienmangiando.com
Not only a great talent in the kitchen, but also a font of knowledge of the region, Chef Valicenti came and sat at our table at the end of the meal and asked about our plans for the rest of the day. We were in fact heading back to our hotel in Matera and had been planning on returning via the same route we had arrived by. Thanks to the Chef, who produced a hand-drawn map for us and took the time to explain what we could see along the way, we took a different route back through the National Park enjoying some of the sights we would have otherwise missed. This level of service and attention to detail is not such a common thing these days and was a real treat, although I have to say that in general the service and hospitality was of a very high standard everywhere we went in Basilicata, even at the little supermarket round the corner from where we stayed in Matera who presented us with a 3 or 4 generous free samples of local cheeses when we were trying to decide which to buy.
Tip: If you have the chance to go and eat at Luna Rossa and you don’t speak Italian yourself, bring along an Italian speaking friend to translate for you. If that’s not possible, come anyway, put yourself in the hands of the Chef and let the food speak for itself!
Chef Valicenti will soon be opening a new restaurant in Rome offering a menu that celebrates Italian excellence whilst leaning towards mediterranean cuisine and street food.
Il Pollino è a un soffio dalla luna, silenzio e montagna, lontano dai fastidi del mondo e custoditi dall’esperienza millenaria del Pino Loricato. Qui terra e aria trovano l’amore nei racconti e nei piatti di Federico Valicenti, cuoco di alta quota, innamorato come pochi del “suo Parco” e delle sue origini lucane, oste che si fa filosofo del cibo per proiettare in una cucina povera la ricchezza delle del sentimento pop.
Una cucina solida, che ha il sapore deciso delle stagioni e delle essenze vere di un territorio che per fortuna riesce ancora, e speriamo per molto altro tempo, a conservare la qualità della materia.
Di certo a Valicenti va riconosciuta la visione e la capacità di essere riuscito a portare il Pollino, prima ancora che la Basilicata, nei taccuini degli appassionati gourmet di diverse latitudini non solo del sud.
Studio e ricerca, fantasia e tensione, determinazione e pazienza, sorriso e generosità sono gli ingredienti principali del suo lavoro.
Un lavoro che fonda le sue basi nell’accoglienza e nell’ospitalità, quando troppo spesso il lavoro della sala è fastidiosamente trascurato.
La cucina della Luna Rossa è la summa della sua personalità: buona. Per niente interessata alle tendenze e mai condizionata neppure dalle occasioni patinate che le sono state negli anni riservate. È quella di sempre, sincera, semplice, gustosa, di eccellente qualità popolare mista a quella necessaria e raffinata interpretazione delle “tavole dei ricchi”. Infatti, è nella storia e nella tradizione più casalinga che Federico Valicenti recupera il suo ricettario, certamente attualizzandolo e vivacizzandolo con la sua eccentrica e fervida creatività. Ciò che ne esce è indiscutibilmente piacevole e proviamo a raccontarvelo in due morsi.
La ciambottella (pane caldo con lievito madre ripieno di verdure di stagione), i golosi peperoni cruschi (raccolti da uova “vavuse” e rondelle di salsiccia), e i funghi porcini lardati all’uovo che c’è ma non si vede, sono gli antipasti che abbiamo abbondantemente apprezzato per quel gusto intenso, equilibrato, dolce-grasso, croccante e amaricante che fa crollare le barriere ideologiche del colesterolo.
“Lagane” (Tagliatelle di farine antiche, ceci, orzo, semola e fave con salsa di stagione); “Zinni Zinni “(Cavatelli in salsa di noci e carezze di tartufo nero), “Rafaiuoli” dello chef (Ravioli ripieni di agnello su salsa di pomodoro e salvia) i primi a cui ci siamo abbandonati assaporando i piaceri del bosco e della montagna.
L’arista di Magna Grecia (su cipolla dolce e uvetta passita, ginepro e alloro), la bistecchina di agnello alle erbe di Monte Pollino, invece, i secondi piatti che ci hanno soddisfatto innanzitutto per la buona cottura oltre che per quella sapiente capacità di mettere assieme profumi, colori, sapori.
I Dessert e i dolci della nonna completano un menu ricco, bello da leggere e buonissimo da mangiare.
Il menu alla carta e quello degustazione non vi faranno pentire per il viaggio, non proprio comodo per dovere di cronaca, ma anzi, invitano a tornare, per soddisfare palato e curiosità, e per testare ogni piccolo particolare o ingrediente, e godere ancora dei racconti affascinanti ed intriganti del cuoco buono che soffia alla Luna che diventa Rossa d’amore.
Federico Valicenti ha un pregio. Quello che crea in cucina, prendendosi tutto il tempo necessario, lo fa con passione e quando trova elementi che arricchiscono la sua filosofia del cibo e dello stare insieme, suonano pentole, casseruole e mestoli come campane a festa.
E la conferma di questo modus operandi e vivendi ce lo ha dato l’ultimo lavoro “Dalla tavola al Paradiso” (noi lo scriviamo in maiuscolo) delle edizioni Magister, che abbiamo letto pagina dopo pagina assaporando ingredienti, pietanze, tra pagine dei sacri testi religiosi (dalla Bibbia al Corano) ed eventi storici e tradizionali: dalla Settimana Santa al Ramadan, dal Carnevale al Natale, dalla festa dell’Assunta alla commemorazione dei Defunti collegando l’area mediterranea all’Est europeo al Sud America.
Se pietanze di grano bollito come i “collivi”, simbolo di vita dopo la morte, preparate tra fine febbraio e inizio marzo, per la Quaresima Cristiana, sono da collegare alla “coliva” romena, significa che la cultura dei popoli è accomunata a tavola da un sentire comune.
E con la semplicità rituale e preparatoria che contraddistingue le nostre genti, ma partendo e pasteggiando con prodotti poveri ma nutrienti che le massaie prima di tutto e poi i cuochi hanno preparato per secoli in famiglia nel solco di una identità svilita e stravolta dalle maratone tv e di piazza commerciale dei cookingshow o dello starchefsystem.
Il lavoro di una persona, coscienziosa e solare come Federico Valicenti, che per noi resta il “cuoco” conosciuto a Terranova di Pollino (Potenza) durante la Prima Repubblica, è uno stimolo a guardare al “da dove veniamo?” al “Cosa lega spiritualità, religione, tradizione, genuinità e filosofia di vita? E spunti interessanti per capire questo percorso vengono dalle ricercatrici Libera Valicenti e Simona Bonito con un antipasto di citazioni, riferimenti che aiutano a stimolare i cinque sensi a tavola e a ripristinare quello spirito di convivialità stravolto della dimensione “isolazionista” creata dai social e da quella presenza fastidiosa – a tavola – di smartphone e tablet.
Andrebbero, anzi, a tavola quegli attrezzi dell’innovazione da sempre connessi alla ricerca del ‘campo’ perduto – quando non c’è segnale – vanno spenti. Una foto va bene. Ma un piatto di lagane ricce con la mollica che Federico descrive e consiglia per san Giuseppe, insieme alle zeppole, merita di essere gustato nella pienezza dei sapori e con un bicchiere di vino, per confrontarsi con gli altri commensali con i commenti tradizionali.
“Buono… noi ci aggiungiamo anche una goccia di olio santo… mia madre che era di Bella pure una scorza di formaggio.. Però fa bene… Oggi con tutti questi cibi artificiali… ma non si ha tempo. Una volta…” Sono alcune delle frasi della cultura dello stare insieme e di gustare i piatti di una volta che non hanno prezzo e che nessun prodotto commerciale rappresentato da questo o quello chef “stellato” che prepara piatti soprattutto belli da vedere, perché oggi l’immagine è tutto, ma non è supportata da valori.
Metteteci pure la foglia di prezzemolo, la goccia di aceto balsamico, l’onnipresente peperone crusco e la carota o patata decorata, ma mancano anima e storia del cibo e dei territori. Provate a entrare nelle cucine dei monasteri, in un caciolaio, un vecchio mulino, un frantoio, una casa colonica segnati dal fumo o dalla presenza di un Crocifisso, di una edicola votiva o dal ritratto di un Santo o di una Santa e vi verrà voglia, come è capitato a Federico, di chiedere degli uomini e della loro spiritualità e del legame con il cibo, spesso povero ma benedetto… Un viaggio a ritroso nel tempo che porta al Paradiso della buona e semplice tavola dei popoli. A voi il piacere di leggere, ingrediente per ingrediente, queste ricette e il loro significato. E’ il primo passo, chissà, verso il Paradiso…
Son ceremonias rituales, en las que los árboles son los protagonistas principales.
La que vamos a contar hoy tiene lugar en varios pueblos de la Región Basilicata :
Accetura,Terranova de Pollino,Viggianello,Rotonda,Oliveto Lucano,Castelmezzano,Pietrapetrosa y Castelosaraceno.
Tienen un probable origen Pagano, ya que se trata de algo así como un sacrificio, una ofrenda, destinada a obtener los favores de la divinidad a la que esta dedicada.
Pero con el correr del tiempo fue adoptada por el Cristianismo y se incluye en los calendarios de las Fiestas Cristianas de Primavera, en especial en la de San Antonio de Padua.
Es un ritual que dura varios días y comprende: la cuidadosa selección de un árbol, su corte, su transporte al pueblo, el recorrido para que todos lo vean, alzarlo en la plaza, escalarlo, luego se subasta y por ultimo se lo derriba.
Por el hecho de que participan gran parte de los habitantes del pueblo y merecer una cuidada organización es una verdadera fiesta popular, ya que todos se involucran de una u otra forma.
Todo comienza cuando se va a la montaña a elegir el árbol. Pero atención, en estas fiestas la presencia del cibo (la comida) y el vino asumen un papel fundamental. Por lo tanto es importante llevar sopresata, longaniza, formaggi, frittate, pan casero y mucho vino. Cada uno lleva y todo se comparte, bebiendo del mismo vaso y comiendo del mismo plato. Es muy común llevar panes y ahuecarlos a modo de recipiente y se los llena con hongos fritos, pepperoni, huevos, verdura, pedazos de carne, embutidos y quesos. Por lo que todos prueban, catan de acá y de allá, en una interminable mezcla de aromas y sabores que se confunden con el perfume de las retamas y los prados en flor.
Una vez cortado el árbol, es transportado por una yunta de bueyes, recorriendo todo el pueblo para que aprecien su majestuosidad. En este recorrido se reparten dulces y productos típicos tales como cannariculi, crespelle, zepppole, biscoti scaudatelli, le strazzate, pitte nchiuse, etc. regados con vasos de vino y ofrecidos en bandeja a la gente que se agolpa a su paso.
Todo se desarrolla entre gritos, cantos, sonidos de instrumentos de viento y percusión, pero sin nada de pirotecnia, como si estuviéramos en medio de un rito de exorcismo.
Luego de llevar el árbol, que en general es un abeto de alrededor de 30 mts. de alto, por todo el pueblo, se lo alza en la plaza y es escalado por los jóvenes, premiando a los que alcanzan mas rápido la cima :
Un capretto al primero, un gallo al segundo, un queso al tercero.
Es por esto que se lo conoce también como “Árbol de la Abundancia”
El árbol izado tiene una connotación falica y representa la parte masculina, mientras que el hoyo en donde se lo coloca, representa la parte femenina, simbolizando la fecundidad de la tierra.
Todas las fases del rito son acompañadas por bandas musicales con instrumentos como zampoña, surdeline, tamburelli, fisar moniche, organetti, que se mezclan con los sonidos de las campanas y los mugidos de los bueyes.
Estos ritos se conservan desde hace siglos y representan un patrimonio cultural único y notable de las Regiones del Sur de Italia, que necesitan ser valorizados sin caer en el extremo de transformarlos en fenómenos turísticos de masas.
RECETA
Pizza Arrollada con Longaniza y Papas
Ingredientes
500 grs de harina tipo 000
2 papas
200 grs. de longaniza fresca
100 grs. de pepperoni secos
25 grs de levadura prensada
Sal c/n
Aceite de oliva c/n
1 vaso de agua tibia
1 cucharadita de azúcar
Preparación
En un bowl derretir la levadura prensada en un poco de agua tibia y agregar la cdita. de azúcar (esto ayuda a activar el hongo de la levadura para que actúe mas rápido).
Mientras tanto colocar la harina sobre una tabla en forma de corona, agregar la sal y un chorrito de aceite.
Cuando la levadura haya empezado a activarse (esto se advierte por la formación de espuma en el agua), colocarla en el centro de la corona de harina y unir todos los elementos, formando un bollo, al cual lo vamos a amasar hasta obtener una textura lisa y un bollo tierno.
En este punto dejamos reposar la masa en un lugar cálido, tapado con un film para que no se reseque la superficie, hasta que la misma duplique su volumen.
Limpiar los pepperoni secos, quitar el cabito y las semillas y ponerlos a remojar en agua caliente por 15 minutos.
Pelar las papas y cortarlas en rebanadas finitas (aprox. 5 mm.), saltearlas en un sartén con aceite de oliva bien caliente, agregar la longaniza desmenuzada y los pepperoni remojados y cortados en trozos, saltear todo por aprox. 2 minutos.
Tomar el bollo de masa levada, extenderla y distribuir sobre ella el salteado de papas, longaniza y pepperoni.
Arrollar la masa sobre si misma y aplastarla.
Con la palma de la mano untada de aceite de oliva, alisar la superficie, untar una placa para horno y colocar la pizza “gnuticata”.
Llevar a horno precalentado a 180º por espacio de 30 minutos.